LR24 (AUGUSTO CIARDI) - Secondo tradizione, il focus post derby si è spostato sulla bandiera col topo e i colori della Lazio. Al motto dei calciatori che devono essere d'esempio per i ragazzini. Già, perché se proliferano le baby gang, se aumentano gli atti di bullismo nelle scuole, se si è notevolmente abbassata l'età media dei ragazzi che fanno uso di stupefacenti, è per colpa dei Gianluca Mancini, oppure mezzo secolo fa gli atti sovversivi degli anni di piombo erano causati dall'esultanza post derby di Giorgio Chinaglia.
"I ragazzini dovrebbero prendere esempio da ragazzi un po' più grandi che giocano a pallone", questo il motivetto pigro e lezioso che ha fatto da colonna sonora a una domenica quasi estiva, in attesa che oggi riaprissero gli uffici federali. Troppo facile. Molto banale. Sono aperti i simposi. Proliferano i comizi. "Al rogo!". Che esempio dà Gianluca Mancini ai bambini? Dio ce ne scampi.
Viviamo l'era dei professori picchiati dai genitori di alunni che vengono bocciati o rimproverati in classe. L'epoca dei ragazzini lasciati a far marcire il cervello davanti ai tablet a guardare gli YouTube perché i genitori "devono fa' serata". In questo contesto, l'esempio dovrebbe arrivare dai calciatori. Banalissimo lavaggio della coscienza. Il calcio è lo sport più amato, praticato e seguito, perché meglio di qualsiasi altro sport incarna le caratteristiche e l'essenza dell'essere umano. Che può risultare leale e generoso, nobile e di elevata moralità. Ma anche prevaricatore, provocatore, scaltro e meschino.
Fece bene Chinaglia negli anni settanta e benissimo Di Canio, emulandolo, a fine anni ottanta. Così come Mancini ieri o Totti in passato. Fa parte del gioco. Nel calcio c'è chi gode e chi rosica malamente. Se le partite, e i derby in particolare, finissero sempre con gesti consolatori nei confronti dei perdenti, il calcio non sarebbe amato nella misura in cui viene amato. Il calcio non prevede che ci si dia il cinque alla conclusione di ogni singola azione, non prevede che si vada a bere la birra abbracciati ai nemici a fine partita, perché il calcio prevede nemici. Non prevede terzi tempi.
Anzi, dopo il caso Acerbi, constatando che neanche nell'era delle mille telecamere e dei duemila microfoni a bordo campo si riesce a fare luce su situazioni scabrose, sarebbe meglio sdoganare tutto ciò che non rientra nella sfera dei reati da codice penale. Non è un caso che continuiamo a essere malati di pallone pure dopo i mille scandali che lo hanno infestato, causati da tesserati, dirigenti, arbitri, persino in collaborazione con il comparto dei mass media. E invece no.
Ci si indigna a seconda della convenienza. Si sale in cattedra e si impartiscono lezioni di moralità. Reiterando il vecchio adagio dell'esempio per i bambini. La causa del cambiamento di un bambino che si storce crescendo, non è riconducibile neanche all'educazione impartita dai genitori, perché il mondo è pieno di delinquenti e di totali imbecilli cresciuti in famiglie per bene, sane, che hanno fatto di tutto per tirarli su al meglio. Figuriamoci se possa esistere un'influenza nociva portata da calciatori che, in fondo, fanno tutto ciò che ci aspettiamo, non soltanto quando permettono alle nostre squadre di vincere le partite.
"Mancini non deve rappresentarci in Nazionale dopo quello che ha fatto!". Quanto sarebbe bello se con tanta veemenza moralistica ci si scagliasse contro gli scandali che hanno reso la nostra Repubblica una barzelletta. Viviamo in una società insana, ma pretendiamo la perfezione in uno sport-spettacolo che amiamo affinché ci consenta di esternare, spesso per sfogo, i nostri istinti più beceri ma tutt'altro che pericolosi per la società stessa. Secondo determinante teorie, dovrebbero esserci fra gli adulti di oggi orde di peccatori, perché negli anni 80 il più grande calciatore del mondo era Diego Armando Maradona. Ci sono i peccatori, ma non certo perché da ragazzini si fecero condizionare dal Pibe de oro. Ipocrisia allo stato puro.
Proliferano dirigenti d'alto bordo che vorrebbero mettere a tacere presunti scandali fiscali e intrallazzi di ogni genere affinché non si offuschi il brand del calcio italiano, poi però ci battiamo il petto in chiesa reclamando squalifiche esemplari per un'esultanza provocatoria. Si chiede rispetto per le tifoserie. Tutti avvocati difensori. Senza sapere che, al netto dell'arrabbiatura, la maggior parte dei tifosi godrebbe se al termine di una partita vinta il proprio idolo prendesse per i fondelli gli avversari. Politicamente scorretto? Può darsi. Ma del tutto innocuo.
Oggi è toccato ai tifosi della Lazio, un domani saranno di nuovo incudine quelli della Roma. È una regola non scritta. Accettata nell'atto dello sposare il calcio come fede e la propria squadra del cuore con amore. Di sicuro, se domani mattina un gruppetto di ragazzini dovesse rubare il cellulare a un coetaneo, non sarebbe di certo per i Gianluca Mancini sparsi per il mondo. A meno che il problema non sia lo spirito di emulazione in campo. Perché dovremmo aprire un altro faldone. I calciatori in erba, in età pre adolescenziale, non sono influenzati dalla bandiera col topo o dal calcio di Cantona al tifoso del Crystal Palace.
Semmai il loro cattivo esempio sono i genitori aggrappati alla recinzione del campo che schiumano rabbia dalla bocca perché l'allenatore ha sostituito il loro piccolo presunto fenomeno, o perché gli urlano di abbattere l'avversario di nove anni che gli ha fatto un tunnel. Siano i genitori, semmai, d'esempio ai ragazzini. E poi, semmai, i mass media, che cavalcano le polemiche a seconda della convenienza.
In the box - @augustociardi75